Di solito non mi piace la scifi, men che meno quella hard: tollero Philip K. Dick (ma neanche tutto), ho provato a leggere Asimov e lo considero un vecchio trombone noiosissimo, detesto Star Trek e pure quelli più recenti e scanzonati che l’Internet dice “madonna mia troppo divertente davvero mi sono spanciato” non mi fanno strappare i capelli.
Sarà perché più o meno col futuro e la scienza ci lavoro quotidianamente, sarà perché faccio fatica a entusiasmarmi se non c’è una trama e dei personaggi scritti bene, fatto sta che generalmente mi tengo alla larga dalla hard scifi coi viaggi interplanetari scientificamente accurati e la tecnologia futuribile ma realistica.
Sì, tendenzialmente preferisco i libri in cui si fa principalmente pew pew e ci sono le avventure matte a quelli in cui il contenuto principale sono le riflessioni profonde sulla natura dell’esistenza umana e magari c’è qualche personaggio che fa qualcosa giusto perché così potevi mettere la scritta “romanzo” in copertina e farti mettere nella sezione narrativa anzichè quella dei saggi dei vecchi tromboni, lo ammetto e non me ne vergogno.
Esistono però le eccezioni che confermano le regole: ho scoperto grazie alla solita nicchia di persone bellissime dell’Internet che si può scrivere sci-fi rigorosissima, di quelle che in fondo hanno la bibliografia coi riferimenti ai paper e agli articoli scientifici che hanno informato il worldbuilding, e anche scrivere narrativa avvincente e di qualità, e anche stimolare profonde riflessioni sulla natura dell’esistenza umana.

Peter Watts fa tutto ciò, partendo dalla più classica delle premesse sci-fi, il primo contatto con gli alieni, ma lo fa ambientandolo in un futuro relativamente prossimo (la fine di questo secolo) e facendo muovere nella trama dei protagonisti che, ognuno a modo suo, hanno “pezzi di umanità” in meno, e che quindi in qualche modo sono alieni per noi tanto quanto quelli che vanno a studiare ai confini della galassia.
C’è quello a cui è stata tolta metà del cervello e quindi non ha l’empatia ma è molto intelligente, c’è quello per cui le personalità multiple sono un enhancement anziché un disturbo, quello che vive così tanto attraverso gli strumenti di misurazione e diagnostica che ormai la sua coscienza è più spesso dentro di questi che nel suo corpo, e c’è pure un vampiro scientificamente accurato because fuck you, i vampiri sono fighi e io ci metto un vampiro, tò.
E poi ci sono gli alieni, anche se per la maggior parte del tempo non “ci sono” veramente ma sono lì come entità, come qualcosa che non si capisce veramente come funzioni e ti dà il pretesto per chiederti allora come funzioniamo noi.
Insomma, “Blindsight” è obiettivamente un discreto mattone, che ti spinge spessissimo a farti domande difficili: cosa significa davvero essere un essere umano? E cosa significa essere un essere senziente? E cosa significa essere, se tutte le scelte che facciamo sono guidate dalla biochimica dei neuroni?
C’è assolutamente abbastanza materiale per un trattato di filosofia, ma ci sono anche le scene, molto belle, molto Alien-like, di pew pew e il character development, almeno per il protagonista/narratore inaffidabile, che è quello che si fa la maggior parte delle domande assieme a noi e che, ovviamente, non si dà risposte, tanto quanto noi.
Non gli dò cinque stelle solo perché la sua natura di laterizio non lo rende adatto proprio a tutti tutti, ma quattro e mezza gliele dò, via, perché rendere così digeribili e avvincenti questioni così complesse è davvero grande letteratura.