Il mio ricordo di Claudio Coccoluto

La mia bolla, comprensibilmente e giustamente, non parla d’altro.

Non è certo stato un fulmine a ciel sereno: nell’ultimo anno vederlo in pubblico era sempre più doloroso, lucido e saggio come sempre e col gusto di sempre, ma affaticato, scavato, indebolito e, almeno a vederlo su schermo, più piccolo, niente a che vedere con l’omone che mi ricordavo.

Sicuramente in questi giorni verranno fuori tanti ricordi di uno senza il quale, davvero, la scena musicale italiana tutta sarebbe diversa, da quando è andato a fare il giurato a Sanremo a “Only Coccoluto can save us” a quando, poi, anziché fare il superstar dj come avrebbe tranquillamente potuto fare, mettendo in fila tutti, ha deciso di fare “solo” il dj, per farlo bene.

Io, però, ho due ricordi personali che mi porto dietro e a cui ho ripensato più di una volta in questi mesi, ogni volta che lo vedevo in una diretta o in qualcuno degli eventi fasulli a cui siamo costretti nell’ultimo anno; ho diviso la console con lui solo due volte, da giovane apprendista dj ed entrambe le volte, per me come per tantissimi che stanno usando questa parola in questo momento, è stato un maestro.

La prima volta suonavo immediatamente prima di lui, a una festa della musica al parco Lambro; lui era l’headliner della giornata, il nome grosso sui flyer, mentre io ero, ovviamente, uno degli ultimi stronzi scritti in piccolo in basso.

Era tardo pomeriggio, saranno state le 7 e qualcosa.

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Ricordo che durante il mio set la “pista”, o comunque lo spazio di parco antistante il palco, era praticamente vuota, se non per pochi sparuti entusiasti che si sono alzati dal prato quando ho messo il remix di Mark Knight di “The Man With The Red Face” (che scelta del cazzo, metterlo davanti a una pista vuota), per cui quando ho finito avevo un po’ di malinconia e, complice il tramonto che iniziava ad arrivare, ho messo il remix di Holden di “The Sky Was Pink” di Nathan Fake a chiudere il mio set.

Da bravo giovane fanboy, mi ero portato il suo libro, “Io, dj”, per farmelo autografare, e lui mi scrisse “The sky IS pink”, per poi lasciar finire il mio disco, farmi prendere un (im)meritato applauso dalla gente che si alzava dal prato perché era apparso l’headliner sul palco e, dal nulla, ribaltare una pista fino a quel momento immobile con “The Sound Of The Big Babou”.

L’altro ricordo è di quando ormai la mia carriera di dj amatoriale volgeva al termine: suonavamo in due sale diverse di un after, ovviamente lui in quella più grande e io in quella più piccola, e in quel periodo ero infastidito dal fatto che i miei soci di allora, e, apparentemente tutti i contesti in cui mi trovavo a suonare, erano legati a della technaccia brutta e rozza, almeno alle mie orecchie, che io ero perfettamente in grado di suonare (che ci vuole) ma in cui non mi riconoscevo e con cui non mi divertivo.

Feci il mio set, quella volta, anche con un discreto riscontro dalla pista, perché, appunto, che ci vuole a suonare i missili terra aria, e andai a sentire il suo, che invece fu una manifestazione assoluta di dominio sulla pista, che appunto voleva la technaccia brutta e rozza e lui invece tirò in mezzo con cose come il remix di Ricardo di “Cellphones Dead” di Beck.

Fu un’esperienza quasi traumatica per me, che a fine set andai a esporgli il mio problema, a dirgli più o meno “maestro, mi sento costretto a suonare della roba che mi fa cagare, come faccio?”.

Lui era abbastanza di corsa, se ne stava andando, e mi mise comunque un braccio attorno alle spalle e mi disse che stava a me far capire chi comandava, chi decideva cosa avrebbero ascoltato; io quel carisma lì non ce l’ho mai avuto più di tanto, non coi dischi almeno, eppure a lui veniva spontaneo, come se fosse l’unica cosa possibile.

E adesso che i dischi non li metto praticamente più ma spesso mi trovo in posizioni in cui devo (e voglio) essere il leader, mi torna in mente il suo modo di essere il leader della pista e il decano dei dj italiani, non perché qualcuno aveva detto che lui era il leader, o perché era il più esperto che andava riverito “by design”, ma solo e semplicemente perché faceva quello che faceva meglio di me e di un sacco di altri.

Mancherà una figura così, che potrebbe fare il grande vecchio che pontifica dall’alto della sua esperienza (e ne avrebbe avuto il diritto) e invece parla il giusto, e condivide la sua saggezza, ma soprattutto va avanti a far vedere come si fa, anziché dirlo; ma io mi porto dietro questi due ricordi e cerco di essere un leader migliore, anche senza i dischi.